Lettera Apostolica del Santo Padre sullimportanza dellArcheologia in occasione del Centenario del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (11 dicembre 2025)
Nel centenario della fondazione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, sento il dovere e la gioia di condividere alcune riflessioni che ritengo importanti per il cammino della Chiesa nei tempi presenti. Lo faccio con cuore grato, consapevole che la memoria del passato, illuminata dalla fede e purificata dalla carità, è nutrimento della speranza.
Nel 1925 era stato indetto il “Giubileo della pace”, che intendeva alleviare le atroci ferite del primo conflitto mondiale; ed è significativo che la ricorrenza del centenario dell’Istituto coincida con un nuovo Giubileo, che anche oggi vuole dare prospettive di speranza all’umanità, travagliata da numerose guerre.
Il nostro tempo, segnato da rapidi mutamenti, da crisi umanitarie e transizioni culturali, richiede, insieme con il ricorso ad antichi e nuovi saperi, anche la ricerca di una sapienza profonda, capace di custodire e tramandare al futuro ciò che è veramente essenziale. È in questa prospettiva che desidero riaffermare con forza quanto l’archeologia sia una componente imprescindibile dell’interpretazione del cristianesimo e, per conseguenza, della formazione catechetica e teologica. Essa non è solo una disciplina specialistica, riservata a pochi esperti, ma una via accessibile a tutti coloro che vogliono comprendere l’incarnazione della fede nel tempo, nei luoghi e nelle culture. Per noi cristiani la storia è un fondamento cruciale: infatti compiamo il pellegrinaggio della vita nel concreto della storia, che è anche lo scenario in cui si svolge il mistero della salvezza. Ogni cristiano è chiamato a basare la propria esistenza su una Buona Novella che parte dall’Incarnazione storica del Verbo di Dio (cfr Gv 1,14).
Come ci ha ricordato l’amato Papa Francesco, «nessuno può conoscere veramente chi è e che cosa intende essere domani senza nutrire il legame che lo connette con le generazioni che lo precedono. E questo vale non solo a livello di vicenda dei singoli, ma anche ad un livello più ampio di comunità. Infatti, studiare e raccontare la storia aiuta a mantenere accesa la fiamma della coscienza collettiva. Altrimenti rimane solo la memoria personale dei fatti legati al proprio interesse o alle proprie emozioni, senza un vero collegamento con la comunità umana ed ecclesiale nella quale ci troviamo a vivere». [1]
La Casa dell’archeologia
Col Motu Proprio “I primitivi cemeteri”, dell’11 dicembre 1925, Papa Pio XI sanciva un progetto ambizioso e lungimirante: la fondazione di un istituto di alta formazione, cioè dottorale, che, coordinandosi con la Commissione di Archeologia Sacra e con la Pontificia Accademia Romana di Archeologia, avrebbe avuto il compito di indirizzare, con il massimo rigore scientifico, gli studi sui monumenti del cristianesimo antico per ricostruire la vita delle prime comunità, formando «così Professori di archeologia cristiana per le Università e i Seminari, Direttori di scavi di antichità, Conservatori di monumenti sacri, musei, ecc.». [2] Nella visione di Pio XI l’archeologia è indispensabile per l’esatta ricostruzione della storia, la quale, come «luce di verità e testimonio dei tempi, se rettamente consultata e diligentemente esaminata», [3] indica ai popoli la fecondità delle radici cristiane e i frutti di bene comune che ne possono derivare, accreditando in tal modo anche l’opera di evangelizzazione.
In tutti questi anni, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana ha formato centinaia di archeologi del cristianesimo antico provenienti, come gli stessi professori, da tutte le parti del mondo, i quali, rientrati nei propri Paesi, hanno ricoperto importanti incarichi di docenza o di tutela; ha promosso ricerche a Roma e nell’intero orbe cristiano; ha svolto un efficace ruolo internazionale per la promozione dell’archeologia cristiana, sia con l’organizzazione dei ciclici congressi e con numerose altre iniziative scientifiche, sia per le strette relazioni e gli scambi costanti con università e centri di studio di tutto il mondo.
L’Istituto ha saputo essere, in alcuni momenti, promotore di pace e di dialogo religioso, ad esempio organizzando il XIII Congresso internazionale a Spalato durante la guerra nella ex-Jugoslavia – scelta difficile e con molti dissensi nell’ambiente accademico – [4] o confermando la propria operatività con missioni all’estero in Paesi politicamente instabili. Non ha mai derogato agli obiettivi dell’alta formazione, privilegiando il contatto diretto con le fonti scritte e i monumenti, tracce visibili e inequivocabili delle prime comunità cristiane, attraverso visite, soprattutto alle catacombe e alle chiese di Roma, e i viaggi annuali di studio nelle aree geografiche interessate dalla diffusione del Cristianesimo.
Quando le esigenze della didattica e le sollecitazioni dall’esterno lo hanno richiesto, soprattutto negli anni recenti con il Processo di Bologna, sottoscritto dalla Santa Sede, per la costruzione di un sistema di istruzione superiore coerente in Europa, l’Istituto ha aggiornato le discipline e i percorsi formativi, senza mai discostarsi dagli obiettivi e dallo spirito dei suoi fondatori. Esso ha continuato a calcare le orme degli iniziatori dell’archeologia cristiana, specialmente di Giovanni Battista de Rossi, «studioso instancabile, che pose le basi di una disciplina scientifica». [5] A lui si devono, nella seconda metà del XIX secolo, la scoperta della gran parte dei cimiteri cristiani intorno alle mura di Roma, come pure lo studio dei santuari dei Martiri delle persecuzioni, quelle di Decio, di Valeriano e di Diocleziano soprattutto, e dei loro sviluppi dall’età di Costantino, attrattori di un pellegrinaggio sempre più fiorente fino all’alto medioevo.
Questo è stato rendere un servizio alla Chiesa, che ha potuto contare sull’Istituto come promotore delle conoscenze sulle testimonianze materiali del cristianesimo delle origini, sui Martiri che ancora oggi rappresentano esempi di una fede brillante e coraggiosa. Il servizio dell’Istituto è stato anche pratico, poiché è intervenuto nello scavo – intrapreso dalla Fabbrica di San Pietro – della tomba dell’Apostolo Pietro sotto l’Altare della Confessione della Basilica Vaticana e, più recentemente, nelle indagini dei Musei Vaticani presso San Paolo fuori le mura.
L’archeologia come scuola di incarnazione
Oggi siamo chiamati a chiederci: quanto ancora può essere proficuo, nell’epoca dell’intelligenza artificiale e delle investigazioni nelle infinite galassie dell’universo, il ruolo dell’archeologia cristiana nella società e per la Chiesa?
Il cristianesimo non è nato da un’idea, ma da una carne. Non da un concetto astratto, ma da un grembo, da un corpo, da un sepolcro. La fede cristiana, nel suo cuore più autentico, è storica: si fonda su eventi concreti, su volti, su gesti, su parole pronunciate in una lingua, in un’epoca, in un ambiente. [6] È questo che l’archeologia rende evidente, palpabile. Essa ci ricorda che Dio ha scelto di parlare in una lingua umana, di camminare su una terra, di abitare luoghi, case, sinagoghe, strade.
Non si può comprendere fino in fondo la teologia cristiana senza l’intelligenza dei luoghi e delle tracce materiali che testimoniano la fede dei primi secoli. Non è un caso che l’evangelista Giovanni apra la sua Prima Lettera con una sorta di dichiarazione sensoriale: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1). L’archeologia cristiana è, in un certo senso, una risposta fedele a queste parole. Essa vuole toccare, vedere, ascoltare il Verbo che si è fatto carne. Non per fermarsi a ciò che è visibile, ma per lasciarsi condurre al Mistero che vi si cela.
L’archeologia, occupandosi dei vestigi materiali della fede, educa a una teologia dei sensi: una teologia che sa vedere, toccare, odorare, ascoltare. L’archeologia cristiana educa a questa sensibilità. Scavando tra le pietre, tra le rovine, tra gli oggetti, essa ci insegna che nulla di ciò che è stato toccato dalla fede è insignificante. Anche un frammento di mosaico, un’iscrizione dimenticata, un graffito su una parete catacombale possono raccontare la biografia della fede. In tal senso, l’archeologia è anche scuola di umiltà: insegna a non disprezzare ciò che è piccolo, ciò che è apparentemente secondario. Insegna a leggere i segni, a interpretare il silenzio e l’enigma delle cose, a intuire ciò che non è più scritto. È una scienza della soglia, che sta tra la storia e la fede, tra la materia e lo Spirito, tra l’antico e l’eterno.
Viviamo in un’epoca in cui l’uso e il consumo hanno preso il sopravvento sulla custodia e sul rispetto. L’archeologia, invece, ci insegna che anche la più piccola testimonianza merita attenzione, che ogni traccia ha un valore, che nulla può essere scartato. In questo senso, essa è una scuola di sostenibilità culturale e di ecologia spirituale. È un’educazione al rispetto della materia, della memoria, della storia. L’archeologo non butta via, ma conserva. Non consuma, ma contempla. Non distrugge, ma decifra. Il suo sguardo è paziente, preciso, rispettoso. È lo sguardo che sa cogliere in un pezzo di ceramica, in una moneta corrosa, in un’incisione consunta il respiro di un’epoca, il senso di una fede, il silenzio di una preghiera. È uno sguardo che può insegnare molto anche alla pastorale e alla catechesi di oggi.
D’altra parte, i più moderni strumenti tecnologici permettono di ricavare nuove informazioni da reperti un tempo considerati insignificanti. Questo ci ricorda che nulla è veramente inutile o perduto. Anche ciò che appare marginale può, alla luce di nuove domande e nuovi metodi, restituire significati profondi. L’archeologia, in questo, è anche scuola di speranza.
Nelle Norme applicative della Costituzione apostolica Veritatis gaudium si afferma che l’Archeologia, insieme alla Storia della Chiesa e alla Patrologia, deve far parte delle discipline fondamentali per la formazione teologica. [7] Non si tratta di un’aggiunta accessoria, dunque, ma di un principio pedagogico profondo: chi studia teologia deve sapere da dove viene la Chiesa, come ha vissuto, quali forme ha assunto la fede nel corso dei secoli. L’archeologia non ci parla solo di cose, ma di persone: delle loro case, delle loro tombe, delle loro chiese, delle loro preghiere. Ci parla della vita quotidiana dei primi cristiani, dei luoghi del culto, delle forme dell’annuncio. Ci parla di come la fede ha modellato spazi, città, paesaggi, mentalità. E ci aiuta a comprendere come la rivelazione si sia incarnata nella storia, come il Vangelo abbia trovato parole e forme dentro le culture. Una teologia che ignora l’archeologia rischia di diventare disincarnata, astratta, ideologica. Al contrario, una teologia che accoglie l’archeologia come alleata è una teologia che ascolta il corpo della Chiesa, che interroga le sue ferite, che legge i suoi segni, che si lascia toccare dalla sua storia.
La professione archeologica è, in gran parte, una professione “tattile”. Gli archeologi sono i primi a toccare, dopo secoli, una materia sepolta che conserva l’energia del tempo. Ma il compito dell’archeologo cristiano non si ferma alla materia, va oltre, fino all’umano. Non studia soltanto i reperti, ma anche le mani che li hanno forgiati, le menti che li hanno concepiti, i cuori che li hanno amati. Dietro ogni oggetto c’è una persona, un’anima, una comunità. Dietro ogni rovina, un sogno di fede, una liturgia, una relazione. L’archeologia cristiana, allora, è anche una forma di carità: è un modo per far parlare i silenzi della storia, per restituire dignità a chi è stato dimenticato, per riportare alla luce la santità anonima di tanti fedeli che hanno fatto la Chiesa.
Una memoria per evangelizzare
Fin dalle origini del cristianesimo, la memoria ha avuto un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione. Non si tratta di un semplice ricordo, ma di una riattualizzazione viva della salvezza. Le prime comunità cristiane custodivano, insieme con le parole di Gesù, anche i luoghi, gli oggetti, i segni della sua presenza. La tomba vuota, la casa di Pietro a Cafarnao, le tombe dei martiri, le catacombe romane: tutto concorreva a testimoniare che Dio era entrato davvero nella storia e che la fede non era una filosofia, ma un cammino concreto nella carne del mondo.
Papa Francesco scrisse che, nei percorsi catacombali, «si trovano i tanti segni del pellegrinaggio cristiano delle origini: penso, ad esempio, agli importantissimi graffiti della cosiddetta triclia delle catacombe di San Sebastiano, la Memoria Apostolorum, dove si veneravano insieme le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo. Scopriamo poi, in questi percorsi, i simboli e le raffigurazioni cristiane più antiche, che testimoniano la speranza cristiana. Nelle catacombe tutto parla di speranza, tutto: parla di vita oltre la morte, di liberazione dai pericoli e dalla morte stessa per opera di Dio, che in Cristo, il Pastore buono, ci chiama a partecipare alla beatitudine del Paradiso, evocata con figure di piante rigogliose, fiori, prati verdeggianti, pavoni e colombe, pecorelle al pascolo… Tutto parla di speranza e di vita!». [8]
Questo è ancora oggi il compito dell’archeologia cristiana: aiutare la Chiesa a ricordare la propria origine, a custodire la memoria viva dei suoi inizi, a narrare la storia della salvezza non solo con parole, ma anche con immagini, forme, spazi. In un tempo che spesso smarrisce le radici, l’archeologia diventa così strumento prezioso di un’evangelizzazione che parte dalla verità della storia per aprire alla speranza cristiana e alla novità dello Spirito.
L’archeologia cristiana ci fa vedere come il Vangelo sia stato accolto, interpretato, celebrato in contesti culturali diversi; ci mostra come la fede abbia plasmato il quotidiano, la città, l’arte, il tempo. E ci invita a continuare questo processo di inculturazione, perché il Vangelo oggi possa ancora trovare casa nei cuori e nelle culture del mondo contemporaneo. In questo senso, non guarda soltanto al passato: parla al presente e orienta verso il futuro. Parla ai credenti, che riscoprono le radici della loro fede; ma parla anche ai lontani, ai non credenti, a quanti si interrogano sul senso della vita e trovano, nel silenzio delle tombe e nella bellezza delle basiliche paleocristiane, un’eco di eternità. Parla ai giovani, che spesso cercano autenticità e concretezza; parla agli studiosi, che vedono nella fede non un’astrazione ma una realtà storicamente documentata; parla ai pellegrini, che ritrovano nelle catacombe e nei santuari il senso del cammino e l’invito alla preghiera per la Chiesa.
In un tempo nel quale la Chiesa è chiamata ad aprirsi alle periferie – geografiche ed esistenziali – l’archeologia può essere strumento potente di dialogo; può contribuire a creare ponti tra mondi distanti, tra culture diverse, tra generazioni; può testimoniare che la fede cristiana non è mai stata una realtà chiusa, ma una forza dinamica, capace di penetrare nei tessuti più profondi della storia umana.
Saper vedere oltre: la Chiesa tra tempo ed eternità
La grandezza della missione archeologica si misura anche nella capacità di collocare la Chiesa dentro la tensione tra il tempo e l’eternità. Ogni reperto, ogni frammento portato alla luce ci dice che il cristianesimo non è un’idea sospesa, ma un corpo che ha vissuto, che ha celebrato, che ha abitato lo spazio e il tempo. La fede non è fuori dal mondo, ma nel mondo. Non è contro la storia, ma dentro la storia.
Eppure l’archeologia non si limita a descrivere la materialità delle cose. Essa ci conduce oltre: ci fa intuire la forza di un’esistenza che trascende i secoli, che non si esaurisce nella materia, ma la oltrepassa. Così, ad esempio, nella lettura delle sepolture cristiane vediamo, oltre, la morte, l’attesa della risurrezione; nella disposizione delle absidi cogliamo, oltre un calcolo architettonico, l’orientamento verso Cristo; nelle tracce del culto riconosciamo, oltre un rituale, l’anelito al Mistero.
In una prospettiva più sistematica, è possibile affermare che l’archeologia ha una rilevanza specifica anche nella teologia della Rivelazione. Dio ha parlato nel tempo, attraverso eventi e persone. Ha parlato nella storia di Israele, nella vicenda di Gesù, nel cammino della Chiesa. La Rivelazione è dunque sempre anche storica. Ma se è così, allora la comprensione della Rivelazione non può prescindere da un’adeguata conoscenza dei contesti storici, culturali e materiali nei quali essa si è realizzata. L’archeologia cristiana contribuisce a questa conoscenza. Essa illumina i testi con le testimonianze materiali. Interroga le fonti scritte, le completa, le problematizza. In alcuni casi, conferma l’autenticità delle tradizioni; in altri, le ricolloca nel loro giusto contesto; in altri ancora, apre nuove domande. Tutto questo è teologicamente rilevante. Perché una teologia che voglia essere fedele alla Rivelazione deve restare aperta alla complessità della storia.
L’archeologia, inoltre, mostra come il cristianesimo si sia progressivamente articolato nel tempo, affrontando sfide, conflitti, crisi, momenti di splendore e di oscurità. Questo aiuta la teologia ad abbandonare visioni idealizzate o lineari del passato e a entrare nella verità del reale: una verità fatta di grandezza e di limite, di santità e di fragilità, di continuità e di rottura. Ed è proprio in questa storia reale, concreta, spesso contraddittoria, che Dio ha voluto manifestarsi.
Non è un caso, infine, che ogni approfondimento del mistero della Chiesa sia accompagnato da un ritorno alle origini. Non per un mero desiderio di ripristino, ma per una ricerca di autenticità. La Chiesa si sveglia e rinnova quando torna a interrogarsi su ciò che l’ha fatta nascere, su ciò che la definisce in profondità. L’archeologia cristiana può offrire un grande contributo in questo senso. Essa ci aiuta a distinguere l’essenziale dal secondario, il nucleo originario dalle incrostazioni della storia.
Ma attenzione: non si tratta di un’operazione che riduce la vita ecclesiale a un culto del passato. La vera archeologia cristiana non è conservazione sterile, ma memoria viva. È capacità di far parlare il passato al presente. È sapienza nel discernere ciò che lo Spirito Santo ha suscitato nella storia. È fedeltà creativa, non imitazione meccanica. Per questo motivo, l’archeologia cristiana può offrire un linguaggio comune, una base condivisa, una memoria riconciliata. Può aiutare a riconoscere la pluralità delle esperienze ecclesiali, la varietà delle forme, l’unità nella diversità. E può diventare luogo di ascolto, spazio di dialogo, strumento di discernimento.
Il valore della comunione accademica
Quando, nel 1925, Pio XI volle istituire il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, lo fece nonostante le difficoltà economiche e il clima incerto del dopoguerra. Lo fece con coraggio, con lungimiranza, con fiducia nella scienza e nella fede. Oggi, a cento anni di distanza, quel gesto ci interpella. Ci chiede se siamo capaci, anche noi, di credere nella forza dello studio, della formazione, della memoria; ci chiede se siamo disposti a investire nella cultura nonostante la crisi, a promuovere la conoscenza nonostante l’indifferenza, a difendere la bellezza anche quando essa sembra marginale. Essere fedeli allo spirito dei fondatori significa non accontentarsi del già fatto, ma rilanciare. Significa formare persone capaci di pensare, di interrogare, di discernere, di narrare. Significa non chiudersi in un sapere elitario, ma condividere, divulgare, coinvolgere.
In questo centenario, desidero anche ribadire l’importanza della comunione tra le diverse istituzioni che si occupano di archeologia. La Pontificia Accademia Romana di Archeologia, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, la Pontificia Accademia Cultorum Martyrum, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana: ciascuna con la propria specificità, tutte condividono una medesima missione. È necessario che esse collaborino, si parlino, si sostengano. Che stabiliscano sinergie, elaborino progetti comuni, promuovano reti internazionali.
L’archeologia cristiana non è una riserva per pochi, ma una risorsa per tutti. Essa può offrire un contributo originale alla conoscenza dell’umanità, al rispetto della diversità, alla promozione della cultura.
Anche il rapporto con l’Oriente cristiano può trovare, nell’archeologia, un terreno fecondo. Le catacombe comuni, le chiese condivise, le pratiche liturgiche analoghe, i martirologi convergenti: tutto questo costituisce un patrimonio spirituale e culturale da valorizzare insieme.
Educare alla memoria, custodire la speranza
Viviamo in un mondo che tende a dimenticare, che corre veloce, che consuma immagini e parole senza sedimentare senso. La Chiesa, invece, è chiamata a educare alla memoria, e l’archeologia cristiana è uno dei suoi strumenti più nobili per farlo. Non per rifugiarsi nel passato, ma per abitare il presente con coscienza, per costruire il futuro con radici.
Chi conosce la propria storia, sa chi è. Sa dove andare. Sa di chi è figlio e a quale speranza è chiamato. I cristiani non sono orfani: hanno una genealogia di fede, una tradizione viva, una comunione di testimoni. L’archeologia cristiana rende visibile questa genealogia, ne custodisce i segni, li interpreta, li racconta, li trasmette. In questo senso, essa è anche ministero di speranza. Perché mostra che la fede ha già attraversato epoche difficili. Ha resistito alle persecuzioni, alle crisi, ai cambiamenti. Ha saputo rinnovarsi, reinventarsi, radicarsi in nuovi popoli, fiorire in nuove forme. Chi studia le origini cristiane, vede che il Vangelo ha sempre avuto una forza generativa, che la Chiesa è sempre rinata, che la speranza non è mai venuta meno.
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Mi rivolgo ai Vescovi e ai responsabili di cultura e di educazione: incoraggiate i giovani, laici e sacerdoti, a studiare l’archeologia, che offre tante prospettive formative e professionali all’interno delle istituzioni ecclesiastiche e civili, nel mondo accademico e sociale, nei campi della cultura e della conservazione.
Infine, la mia parola va a voi, fratelli e sorelle, studiosi, docenti, studenti, ricercatori, operatori dei beni culturali, responsabili ecclesiastici e laici: il vostro lavoro è prezioso. Non lasciatevi scoraggiare dalle difficoltà. L’archeologia cristiana è un servizio, è una vocazione, è una forma di amore per la Chiesa e per l’umanità. Continuate a scavare, a studiare, a insegnare, a raccontare. Siate instancabili nel cercare, rigorosi nell’analizzare, appassionati nel trasmettere. E soprattutto siate fedeli al senso profondo del vostro impegno: rendere visibile il Verbo della vita, testimoniare che Dio ha preso carne, che la salvezza ha lasciato impronte, che il Mistero si è fatto narrazione storica.
Vi accompagni tutti la benedizione del Signore. Vi sostenga la comunione della Chiesa. Vi ispiri la luce dello Spirito Santo, che è memoria viva e creatività inesauribile. E vi custodisca la Vergine Maria, che ha saputo meditare ogni cosa nel suo cuore, unendo passato e futuro nello sguardo della fede.
Dal Vaticano, 11 dicembre 2025
LEONE PP. XIV
[1] Francesco, Lettera sul rinnovamento dello studio della Storia della Chiesa (21 novembre 2024): AAS 116 (2024), 1590.
[2] Regolamento per il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (11 dicembre 1925), art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra, 3 (1926), 21.
[3] Pio XI, Lett. enc. Lux Veritatis (25 dicembre 1931), Proemio: AAS 23 (1931), 493.
[4] Cfr P. Saint-Roch, Discours inaugural: a cura di N. Cambi – E. Marin, Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Città del Vaticano 1998, 66-67.
[5] Francesco, Lettera al Cardinale Gianfranco Ravasi in occasione della XXV Seduta pubblica delle Pontificie Accademie (1° febbraio 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] Ad esempio, nel Credo abbiamo il riferimento a Ponzio Pilato, un personaggio storico, che permette di datare gli eventi ricordati.
[7] Congrezione per l’Educazione Cattolica, Norme applicative per la fedele esecuzione della Cost. ap. Veritatis gaudium (27 dicembre 2017), art. 55, 1º b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Francesco, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra (17 maggio 2024): AAS 116 (2024), 697-698.
