Lettera Apostolica In unitate fidei nel 1700° anniversario del Concilio di Nicea (23 novembre 2025)
1. Nell’unità della fede, proclamata fin dalle origini della Chiesa, i cristiani sono chiamati a camminare concordi, custodendo e trasmettendo con amore e con gioia il dono ricevuto. Esso è espresso nelle parole del Credo: «Crediamo in Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, disceso dal cielo per la nostra salvezza», formulate dal Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, 1700 anni or sono.
Mentre mi accingo a compiere il Viaggio Apostolico in Türkiye, con questa lettera desidero incoraggiare in tutta la Chiesa un rinnovato slancio nella professione della fede, la cui verità, che da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani, merita di essere confessata e approfondita in maniera sempre nuova e attuale. A tal riguardo, è stato approvato un ricco documento della Commissione Teologica Internazionale: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Il 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea. Ad esso rimando, perché offre utili prospettive per l’approfondimento dell’importanza e dell’attualità non solo teologica ed ecclesiale, ma anche culturale e sociale del Concilio di Nicea.
2. «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio»: così San Marco intitola il suo Vangelo, riassumendone l’intero messaggio proprio nel segno della figliolanza divina di Gesù Cristo. Allo stesso modo, l’Apostolo Paolo sa di essere chiamato ad annunciare il Vangelo di Dio sul suo Figlio morto e risorto per noi (cfr Rm 1,9), che è il “sì” definitivo di Dio alle promesse dei profeti (cfr 2Cor 1,19-20). In Gesù Cristo, il Verbo che era Dio prima dei tempi e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte – recita il prologo del Vangelo di San Giovanni –, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). In Lui, Dio si è fatto nostro prossimo, così che tutto quello che noi facciamo ad ognuno dei nostri fratelli, l’abbiamo fatto a Lui (cfr Mt 25,40).
È quindi una provvidenziale coincidenza che in questo Anno Santo, dedicato alla nostra speranza che è Cristo, si celebri anche il 1700° anniversario del primo Concilio Ecumenico di Nicea, che proclamò nel 325 la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. È questo il cuore della fede cristiana. Ancor oggi nella celebrazione eucaristica domenicale pronunciamo il Simbolo Niceno-costantinopolitano, professione di fede che unisce tutti i cristiani. Essa ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo, in mezzo a molte preoccupazioni e paure, minacce di guerra e di violenza, disastri naturali, gravi ingiustizie e squilibri, fame e miseria patita da milioni di nostri fratelli e sorelle.
3. I tempi del Concilio di Nicea non erano meno turbolenti. Quando esso iniziò, nel 325, erano ancora aperte le ferite delle persecuzioni contro i cristiani. L’Editto di tolleranza di Milano (313), emanato dai due imperatori Costantino e Licinio, sembrava annunciare l’alba di una nuova epoca di pace. Dopo le minacce esterne, tuttavia, nella Chiesa emersero presto dispute e conflitti.
Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto, insegnava che Gesù non è veramente il Figlio di Dio; seppure non una semplice creatura, Egli sarebbe un essere intermedio tra il Dio irraggiungibilmente lontano e noi. Inoltre, vi sarebbe stato un tempo in cui il Figlio “non era”. Ciò era in linea con la mentalità diffusa all’epoca e risultava perciò plausibile.
Ma Dio non abbandona la sua Chiesa, suscitando sempre uomini e donne coraggiosi, testimoni nella fede e pastori che guidano il suo Popolo e gli indicano il cammino del Vangelo. Il Vescovo Alessandro di Alessandria si rese conto che gli insegnamenti di Ario non erano affatto coerenti con la Sacra Scrittura. Poiché Ario non si mostrava conciliante, Alessandro convocò i Vescovi dell’Egitto e della Libia per un sinodo, che condannò l’insegnamento di Ario; agli altri Vescovi dell’Oriente inviò poi una lettera per informarli dettagliatamente. In Occidente si attivò il Vescovo Osio di Cordova, in Spagna, che si era già dimostrato fervente confessore della fede durante la persecuzione sotto l’imperatore Massimiano e godeva della fiducia del Vescovo di Roma, Papa Silvestro.
Anche i seguaci di Ario, però, si compattarono. Ciò portò a una delle più grandi crisi nella storia della Chiesa del primo millennio. Il motivo della disputa, infatti, non era un dettaglio secondario. Si trattava del centro della fede cristiana, cioè della risposta alla domanda decisiva che Gesù aveva posto ai discepoli a Cesarea di Filippo: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
4. Mentre la controversia divampava, l’imperatore Costantino si rese conto che insieme all’unità della Chiesa era minacciata anche l’unità dell’Impero. Convocò quindi tutti i Vescovi a un concilio ecumenico, cioè universale, a Nicea, per ristabilire l’unità. Il sinodo, detto dei “318 Padri”, si svolse sotto la presidenza dell’imperatore: il numero dei Vescovi riuniti insieme era senza precedenti. Alcuni di loro portavano ancora i segni delle torture subite durante la persecuzione. La grande maggioranza di essi proveniva dall’Oriente, mentre sembra che solo cinque fossero occidentali. Papa Silvestro si affidò alla figura, teologicamente autorevole, del Vescovo Osio di Cordova, e inviò due presbiteri romani.
5. I Padri del Concilio testimoniarono la loro fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione apostolica, come veniva professata durante il battesimo secondo il mandato di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» ( Mt 28,19). In Occidente ne esistevano varie formule, tra le quali il cosiddetto Credo degli Apostoli. [1] Anche in Oriente esistevano molte professioni battesimali, tra loro simili nella struttura. Non si trattava di un linguaggio erudito e complicato, ma piuttosto – come si disse in seguito – del semplice linguaggio comprensibile ai pescatori del mare di Galilea.
Su questa base il Credo niceno inizia professando: «Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili». [2] Con ciò i Padri conciliari espressero la fede nel Dio uno e unico. Al Concilio non ci fu controversia al riguardo. Venne invece discusso un secondo articolo, che utilizza anch’esso il linguaggio della Bibbia per professare la fede in « un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il dibattito era dovuto all’esigenza di rispondere alla questione sollevata da Ario su come si dovesse intendere l’affermazione “Figlio di Dio” e come potesse conciliarsi con il monoteismo biblico. Il Concilio era perciò chiamato a definire il corretto significato della fede in Gesù come “il Figlio di Dio”.
I Padri confessarono che Gesù è il Figlio di Dio in quanto è « dalla sostanza ( ousia) del Padre […] generato, non creato, della stessa sostanza ( homooúsios) del Padre». Con questa definizione veniva radicalmente respinta la tesi di Ario. [3] Per esprimere la verità della fede, il Concilio ha usato due parole, “sostanza” ( ousia) e “della stessa sostanza” ( homooúsios) , che non si trovano nella Scrittura. Così facendo non ha voluto sostituire le affermazioni bibliche con la filosofia greca. Al contrario, il Concilio ha utilizzato questi termini per affermare con chiarezza la fede biblica distinguendola dall’errore ellenizzante di Ario. L’accusa di ellenizzazione non si applica dunque ai Padri di Nicea, ma alla falsa dottrina di Ario e dei suoi seguaci.
In positivo, i Padri di Nicea vollero fermamente restare fedeli al monoteismo biblico e al realismo dell’incarnazione. Vollero ribadire che l’unico vero Dio non è irraggiungibilmente lontano da noi, ma al contrario si è fatto vicino e ci è venuto incontro in Gesù Cristo.
6. Per esprimere il suo messaggio nel linguaggio semplice della Bibbia e della liturgia familiare a tutto il Popolo di Dio, il Concilio riprende alcune formulazioni della professione battesimale: «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero». Il Concilio riprende poi la metafora biblica della luce: «Dio è luce» (1Gv 1,5; cfr Gv 1,4-5). Come la luce che irradia e comunica sé stessa senza venire meno, così il Figlio è il riflesso (apaugasma) della gloria di Dio e l’immagine (character) del suo essere (ipostasi) (cfr Eb 1,3; 2Cor 4,4). Il Figlio incarnato, Gesù, è perciò la luce del mondo e della vita (cfr Gv 8,12). Attraverso il battesimo, gli occhi del nostro cuore vengono illuminati (cfr Ef 1,18), affinché anche noi possiamo essere luce nel mondo (cfr Mt 5,14).
Il Credo, infine, afferma che il Figlio è «Dio vero da Dio vero». In molti luoghi, la Bibbia distingue gli idoli morti dal Dio vero e vivente. Il vero Dio è il Dio che parla e agisce nella storia della salvezza: il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (cfr Es 3,14), il Dio che vede la miseria del popolo, ascolta il suo grido, lo guida e lo accompagna attraverso il deserto con la colonna di fuoco (cfr Es 13,21), gli parla con voce di tuono (cfr Dt 5,26) e ne ha compassione (cfr Os 11,8-9). Il cristiano è quindi chiamato a convertirsi dagli idoli morti al Dio vivo e vero (cfr At 12,25; 1Ts 1,9). In questo senso, Simon Pietro confessa a Cesarea di Filippo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).
7. Il Credo di Nicea non formula una teoria filosofica. Professa la fede nel Dio che ci ha redenti attraverso Gesù Cristo. Si tratta del Dio vivente: Egli vuole che abbiamo la vita e che l’abbiamo in abbondanza (cfr Gv 10,10). Per questo il Credo continua con le parole della professione battesimale: il Figlio di Dio che “per noi uomini e per la nostra salvezza discese e si è incarnato e si è fatto uomo, morì, il terzo giorno è risuscitato, è salito al cielo e verrà per giudicare i vivi e i morti”. Ciò rende chiaro che le affermazioni di fede cristologiche del Concilio sono inserite nella storia di salvezza tra Dio e le sue creature.
Sant’Atanasio, che aveva partecipato al Concilio come diacono del Vescovo Alessandro e gli succedette sulla cattedra di Alessandria d’Egitto, ha sottolineato più volte e con grande forza la dimensione soteriologica che il Credo niceno esprime. Scrive infatti che il Figlio, disceso dal cielo, «ci rese figli del Padre e, divenuto egli stesso uomo, divinizzò gli uomini. Non divenne Dio da uomo che era, ma da Dio che era divenne uomo per poterci divinizzare». [4] Solo se il Figlio è veramente Dio questo è possibile: nessun essere mortale può, di fatto, sconfiggere la morte e salvarci; solo Dio può farlo. È Lui che ci ha liberati nel Figlio suo fatto uomo perché fossimo liberi (cfr Gal 5,1).
Merita di essere sottolineato, nel Credo di Nicea, il verbo descendit, “discese”. San Paolo descrive con espressioni forti questo movimento: «[Cristo] svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,7). Così come scrive il prologo del Vangelo di San Giovanni, «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per questo – insegna la Lettera agli Ebrei – «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). La sera prima della sua morte, si è chinato come uno schiavo per lavare i piedi ai discepoli (cfr Gv 13,1-17). E l’apostolo Tommaso, solo quando ha potuto mettere le dita nella ferita del costato del Signore risorto, ha confessato: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
È proprio in virtù della sua incarnazione che incontriamo il Signore nei nostri fratelli e sorelle bisognosi: «Quello che avete fatto a loro, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il Credo niceno non ci parla dunque del Dio lontano, irraggiungibile, immoto, che riposa in sé stesso, ma del Dio che è vicino a noi, che ci accompagna nel nostro cammino sulle strade del mondo e nei luoghi più oscuri della terra. La sua immensità si manifesta nel fatto che si fa piccolo, si spoglia della sua maestà infinita rendendosi nostro prossimo nei piccoli e nei poveri. Questo fatto rivoluziona le concezioni pagane e filosofiche di Dio.
Un’altra parola del Credo niceno è per noi oggi particolarmente rivelatrice. L’affermazione biblica «si fece carne», precisata inserendo la parola «uomo» dopo la parola «incarnato». Nicea prende così le distanze dalla falsa dottrina secondo cui il Logos avrebbe assunto solo un corpo come rivestimento esterno, ma non l’anima umana, dotata di intelletto e libero arbitrio. Al contrario, vuole affermare ciò che il Concilio di Calcedonia (451) avrebbe dichiarato esplicitamente: in Cristo, Dio ha assunto e redento l’intero essere umano, con corpo e anima. Il Figlio di Dio si è fatto uomo – spiega Sant’Atanasio – perché noi uomini potessimo essere divinizzati. [5] Questa luminosa intelligenza della Rivelazione divina era stata preparata da Sant’Ireneo di Lione e da Origene, sviluppandosi poi con grande ricchezza nella spiritualità orientale.
La divinizzazione non ha nulla a che vedere con l’auto-deificazione dell’uomo. Al contrario, la divinizzazione ci custodisce dalla tentazione primordiale di voler essere come Dio (cfr Gen 3,5). Ciò che Cristo è per natura, noi lo diventiamo per grazia. Attraverso l’opera della redenzione, Dio non solo ha restaurato la nostra dignità umana come immagine di Dio, ma Colui che ci ha creati in modo meraviglioso ci ha resi partecipi, in modo ancor più mirabile, della sua natura divina (cfr 2Pt 1,4).
La divinizzazione è quindi la vera umanizzazione. Ecco perché l’esistenza dell’uomo punta al di là di sé, cerca al di là di sé, desidera al di là di sé ed è inquieta finché non riposa in Dio: [6] Deus enim solus satiat, Dio solo soddisfa l’uomo! [7] Solo Dio, nella sua infinità, può soddisfare l’infinito desiderio del cuore umano, e per questo il Figlio di Dio ha voluto diventare nostro fratello e redentore.
8. Abbiamo detto che Nicea respinse chiaramente gli insegnamenti di Ario. Ma Ario e i suoi seguaci non si arresero. Lo stesso imperatore Costantino e i suoi successori si schierarono sempre più con gli ariani. Il termine homooúsios divenne pomo della discordia tra niceni e anti-niceni, scatenando così altri gravi conflitti. San Basilio di Cesarea descrive la confusione che si produsse con immagini eloquenti, paragonandola a una battaglia navale notturna in una violenta tempesta, [8] mentre Sant’Ilario testimonia l’ortodossia dei laici rispetto all’arianesimo di molti vescovi, riconoscendo che «le orecchie del popolo sono più sante dei cuori dei sacerdoti». [9]
La roccia del credo niceno fu Sant’Atanasio, irriducibile e fermo nella fede. Nonostante fosse stato deposto ed espulso ben cinque volte dalla sede episcopale di Alessandria, ogni volta vi tornò come Vescovo. Anche dall’esilio continuò a guidare il Popolo di Dio attraverso i suoi scritti e le sue lettere. Come Mosè, Atanasio non poté entrare nella terra promessa della pace ecclesiale. Questa grazia era riservata a una nuova generazione, nota come i “giovani niceni”: in Oriente, i tre Padri cappadoci, San Basilio di Cesarea (circa 330-379), a cui fu dato il titolo “il Grande”, suo fratello San Gregorio di Nissa (335-394) e il più grande amico di Basilio, San Gregorio Nazianzeno (329/30-390). In Occidente furono importanti Sant’Ilario di Poitiers (circa 315-367) e il suo allievo San Martino di Tours (circa 316-397). Poi soprattutto Sant’Ambrogio di Milano (333-397) e Sant’Agostino d’Ippona (354-430).
Il merito dei tre Cappadoci, in particolare, è stato quello di portare a compimento la formulazione del Credo niceno, mostrando che l’Unità e la Trinità in Dio non sono affatto in contraddizione. In questo contesto, venne formulato l’articolo di fede sullo Spirito Santo nel primo Concilio di Costantinopoli del 381. Così il Credo, che da allora si chiamò niceno-costantinopolitano recita: «Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». [10]
Dal Concilio di Calcedonia, nel 451, il Concilio di Costantinopoli fu riconosciuto come ecumenico e il Credo niceno-costantinopolitano venne dichiarato universalmente vincolante. [11] Esso, dunque, costituì un vincolo di unità tra Oriente e Occidente. Nel XVI secolo lo hanno mantenuto anche le Comunità ecclesiali sorte dalla Riforma. Il Credo niceno-costantinopolitano risulta così la professione comune di tutte le tradizioni cristiane.
9. È stato lungo e lineare il cammino che ha portato dalla Sacra Scrittura alla professione di fede di Nicea, poi alla sua ricezione da parte di Costantinopoli e Calcedonia, e ancora fino al XVI e al nostro XXI secolo. Tutti noi, come discepoli di Gesù Cristo, «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» siamo battezzati, facciamo su noi stessi il segno della croce e veniamo benedetti. Concludiamo ogni volta la preghiera dei salmi nella Liturgia delle Ore con «Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo». La liturgia e la vita cristiana sono dunque saldamente ancorate al Credo di Nicea e Costantinopoli: ciò che diciamo con la bocca deve venire dal cuore, così da essere testimoniato nella vita. Dobbiamo quindi chiederci: che ne è della ricezione interiore del Credo oggi? Sentiamo che riguarda anche la nostra situazione odierna? Comprendiamo e viviamo ciò che diciamo ogni domenica, e che cosa significa ciò che diciamo per la nostra vita?
10. Il Credo di Nicea inizia professando la fede in Dio, l’Onnipotente, il Creatore del cielo e della terra. Oggi per molti, Dio e la questione di Dio non hanno quasi più significato nella vita. Il Concilio Vaticano II ha rimarcato che i cristiani sono almeno in parte responsabili di questa situazione, perché non testimoniano la vera fede e nascondono il vero volto di Dio con stili di vita e azioni lontane dal Vangelo. [12] Si sono combattute guerre, si è ucciso, perseguitato e discriminato in nome di Dio. Invece di annunciare un Dio misericordioso, si è parlato di un Dio vendicatore che incute terrore e punisce.
Il Credo di Nicea ci invita allora a un esame di coscienza. Che cosa significa Dio per me e come testimonio la fede in Lui? L’unico e solo Dio è davvero il Signore della vita, oppure ci sono idoli più importanti di Dio e dei suoi comandamenti? Dio è per me il Dio vivente, vicino in ogni situazione, il Padre a cui mi rivolgo con fiducia filiale? È il Creatore a cui devo tutto ciò che sono e che ho, le cui tracce posso trovare in ogni creatura? Sono disposto a condividere i beni della terra, che appartengono a tutti, in modo giusto ed equo? Come tratto il creato, che è opera delle sue mani? Ne faccio uso con riverenza e gratitudine, oppure lo sfrutto, lo distruggo, invece di custodirlo e coltivarlo come casa comune dell’umanità? [13]
11. Al centro del Credo niceno-costantinopolitano campeggia la professione di fede in Gesù Cristo, nostro Signore e Dio. È questo il cuore della nostra vita cristiana. Perciò ci impegniamo a seguire Gesù come Maestro, compagno, fratello e amico. Ma il Credo niceno chiede di più: ci ricorda infatti di non dimenticare che Gesù Cristo è il Signore (Kyrios), il Figlio del Dio vivente, che «per la nostra salvezza discese dal cielo» ed è morto «per noi» sulla croce, aprendoci la strada della vita nuova con la sua risurrezione e ascensione.
Certo, la sequela di Gesù Cristo non è una via larga e comoda, ma questo sentiero, spesso impegnativo o persino doloroso, conduce sempre alla vita e alla salvezza (cfr Mt 7,13-14). Gli Atti degli Apostoli parlano della via nuova (cfr At 19,9.23; 22,4.14-15.22), che è Gesù Cristo (cfr Gv 14,6): seguire il Signore impegna i nostri passi sulla via della croce, che attraverso il pentimento ci conduce alla santificazione e alla divinizzazione. [14]
Se Dio ci ama con tutto sé stesso, allora anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Non possiamo amare Dio che non vediamo, senza amare anche il fratello e la sorella che vediamo (cfr 1Gv 4,20). L’amore per Dio senza l’amore per il prossimo è ipocrisia; l’amore radicale per il prossimo, soprattutto l’amore per i nemici senza l’amore per Dio, è un eroismo che ci sovrasta e opprime. Nella sequela di Gesù, l’ascesa a Dio passa attraverso la discesa e la dedizione ai fratelli e alle sorelle, soprattutto agli ultimi, ai più poveri, agli abbandonati e agli emarginati. Ciò che abbiamo fatto al più piccolo di questi, lo abbiamo fatto a Cristo (cfr Mt 25,31-46). Di fronte alle catastrofi, alle guerre e alla miseria, possiamo testimoniare la misericordia di Dio alle persone che dubitano di Lui solo quando esse sperimentano la sua misericordia attraverso di noi. [15]
12. Infine, il Concilio di Nicea è attuale per il suo altissimo valore ecumenico. A questo proposito, il raggiungimento dell’unità di tutti i cristiani è stato uno degli obiettivi principali dell’ultimo Concilio, il Vaticano II. [16] Esattamente trent’anni fa, San Giovanni Paolo II ha proseguito e promosso il messaggio conciliare nell’Enciclica Ut unum sint (25 maggio 1995). Così, con il grande anniversario del primo Concilio di Nicea, celebriamo anche l’anniversario della prima Enciclica ecumenica. Essa può essere considerata come un manifesto che ha aggiornato quelle stesse basi ecumeniche poste dal Concilio di Nicea.
Il movimento ecumenico, grazie a Dio, ha raggiunto molti risultati negli ultimi sessant’anni. Anche se la piena unità visibile con le Chiese ortodosse e ortodosse orientali e con le Comunità ecclesiali sorte dalla Riforma non ci è ancora stata donata, il dialogo ecumenico ci ha portato, sulla base dell’unico battesimo e del Credo niceno-costantinopolitano, a riconoscere i nostri fratelli e sorelle in Gesù Cristo nei fratelli e sorelle delle altre Chiese e Comunità ecclesiali e a riscoprire l’unica e universale Comunità dei discepoli di Cristo in tutto il mondo. Condividiamo infatti la fede nell’unico e solo Dio, Padre di tutti gli uomini, confessiamo insieme l’unico Signore e vero Figlio di Dio Gesù Cristo e l’unico Spirito Santo, che ci ispira e ci spinge alla piena unità e alla testimonianza comune del Vangelo. Davvero quello che ci unisce è molto più di quello che ci divide! [17] Così, in un mondo diviso e lacerato da molti conflitti, l’unica Comunità cristiana universale può essere segno di pace e strumento di riconciliazione contribuendo in modo decisivo a un impegno mondiale per la pace. San Giovanni Paolo II ci ha ricordato, in particolare, la testimonianza dei tanti martiri cristiani provenienti da tutte le Chiese e Comunità ecclesiali: la loro memoria ci unisce e ci sprona ad essere testimoni e operatori di pace nel mondo.
Per poter svolgere questo ministero in modo credibile, dobbiamo camminare insieme per raggiungere l’unità e la riconciliazione tra tutti i cristiani. Il Credo di Nicea può essere la base e il criterio di riferimento di questo cammino. Ci propone, infatti, un modello di vera unità nella legittima diversità. Unità nella Trinità, Trinità nell’Unità, perché l’unità senza molteplicità è tirannia, la molteplicità senza unità è disgregazione. La dinamica trinitaria non è dualistica, come un escludente aut–aut, bensì un legame coinvolgente, un et–et: lo Spirito Santo è il vincolo di unità che adoriamo insieme al Padre e al Figlio. Dobbiamo dunque lasciarci alle spalle controversie teologiche che hanno perso la loro ragion d’essere per acquisire un pensiero comune e ancor più una preghiera comune allo Spirito Santo, perché ci raduni tutti insieme in un’unica fede e un unico amore.
Questo non significa un ecumenismo di ritorno allo stato precedente le divisioni, né un riconoscimento reciproco dell’attuale status quo della diversità delle Chiese e delle Comunità ecclesiali, ma piuttosto un ecumenismo rivolto al futuro, di riconciliazione sulla via del dialogo, di scambio dei nostri doni e patrimoni spirituali. Il ristabilimento dell’unità tra i cristiani non ci rende più poveri, anzi, ci arricchisce. Come a Nicea, questo intento sarà possibile solo attraverso un paziente, lungo e talvolta difficile cammino di ascolto e accoglienza reciproca. Si tratta di una sfida teologica e, ancor più, di una sfida spirituale, che chiede pentimento e conversione da parte di tutti. Per questo abbiamo bisogno di un ecumenismo spirituale della preghiera, della lode e del culto, come accaduto nel Credo di Nicea e Costantinopoli.
Invochiamo dunque lo Spirito Santo, affinché ci accompagni e ci guidi in quest’opera.
Santo Spirito di Dio, tu guidi i credenti nel cammino della storia.
Ti ringraziamo perché hai ispirato i Simboli della fede e perché susciti nel cuore la gioia di professare la nostra salvezza in Gesù Cristo, Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Senza di Lui nulla possiamo.
Tu, Spirito eterno di Dio, di epoca in epoca ringiovanisci la fede della Chiesa. Aiutaci ad approfondirla e a tornare sempre all’essenziale per annunciarla.
Perché la nostra testimonianza nel mondo non sia inerte, vieni, Spirito Santo, con il tuo fuoco di grazia, a ravvivare la nostra fede, ad accenderci di speranza, a infiammarci di carità.
Vieni, divino Consolatore, Tu che sei l’armonia, a unire i cuori e le menti dei credenti. Vieni e donaci di gustare la bellezza della comunione.
Vieni, Amore del Padre e del Figlio, a radunarci nell’unico gregge di Cristo.
Indicaci le vie da percorrere, affinché con la tua sapienza torniamo ad essere ciò che siamo in Cristo: una sola cosa, perché il mondo creda. Amen.
Dal Vaticano, 23 novembre 2025, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo
LEONE PP. XIV
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[1] Denzinger – Hünermann, Enchiridion Symbolorum, Bologna 2018 (d’ora in poi DH), 30.
[2] Ibid., 125.
[3] Dalle affermazioni di Sant’Atanasio in Contra Arianos I, 9, è chiaro che homooúsios non significa “di uguale sostanza”, ma “della stessa sostanza” con il Padre; non si tratta quindi di uguaglianza di sostanza, ma di identità di sostanza tra Padre e Figlio. La traduzione latina di homooúsios parla quindi giustamente di unius substantiae cum Patre (cfr DH 125).
[4] Contra Arianos I, 38, 7- 39, 1.
[5] Cfr De incarnatione, 54, Contra Arianos I, 39; 42; 45; II, 59ss.
[6] S. Agostino, Confessiones, 1.
[7] S. Tommaso d’Aquino, In Symbolum Apostolorum, a. 12.
[8] S. Basilio, De Spiritu Sancto, 30.
[9] S. Ilario, Contra Arianos, vel Auxentium, 6. Memore delle voci dei Padri, il dotto teologo, poi Cardinale e oggi Santo e Dottore della Chiesa John Henry Newman (1801-1890) indagò su questa disputa e giunse alla conclusione che il Credo di Nicea è stato custodito soprattutto dal sensus fidei del popolo di Dio. Cfr On consulting the Faithful in Matters of Doctrine (1859).
[10] DH 150. L’affermazione “e procede dal Padre e dal Figlio ( Filioque)” non si trova nel testo di Costantinopoli; fu inserita nel Credo latino da Papa Benedetto VIII nel 1014 ed è oggetto del dialogo ortodosso – cattolico.
[11] DH 300.
[12] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 19.
[13] Cfr Francesco, Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 67; 78; 124.
[14] Cfr Id., Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 92.
[15] Cfr Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 67; 254.
[16] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Unitatis redintegratio, 1.
[17] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ut unum sint (25 maggio 1995), 20.
